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Mercoledì, 15 Novembre 2017 14:40

Uso “promiscuo” dei social media e competenza giurisdizionale: la parola alla Corte di Giustizia

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Lo scorso 14 novembre sono state presentate le conclusioni dell’Avvocato generale Michal Bobek nella causa C-498/16, Schrems c. Facebook, avente ad oggetto l’interpretazione degli articoli 15 e 16 del Regolamento CE n. 44/2001 (ora sostituiti dagli articoli 17 e 18 del regolamento UE n. 1215/2012) sulla competenza giurisdizionale in materia di controversie tra professionista e consumatore.

La prima delle due questioni sollevate dal giudice del rinvio riguarda la possibilità di qualificare come “consumatore” anche la persona fisica che, dopo aver aperto un account su un social media (nel caso di specie: Facebook) per uso personale, cominci ad utilizzarlo anche per condividere contenuti relativi alla propria attività professionale.

La seconda questione riguarda la possibilità di applicare le disposizioni del regolamento che disciplinano la competenza speciale in materia di controversie tra professionista e consumatore anche per far valere diritti che, pur nascenti da un contratto di consumo, siano stati ceduti a un terzo.

I fatti che hanno portato al rinvio pregiudiziale sono i seguenti.

Il sig. Schrems, cittadino austriaco studioso dei temi della protezione online dei diritti della personalità, ha promosso un’azione civile contro Facebook Ireland, società irlandese costituita da Facebook Inc. per operare nel continente europeo, volta a far accertale la violazione da parte del social network delle norme austriache in materia di trattamento dei dati personali. Il giudizio è stato radicato dinanzi alle corti austriache, in base alla competenza prevista dall’art. 16 reg. CE n. 44/2001 (oggi art. 18 reg. 1215/2012) che stabilisce che “L’azione del consumatore contro l’altra parte del contratto può essere proposta davanti alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui è domiciliata tale parte o, indipendentemente dal domicilio dell’altra parte, davanti alle autorità giurisdizionali del luogo in cui è domiciliato il consumatore”.

L’account e la pagina Facebook, inizialmente aperti per scopi personali, erano divenuti con il tempo strumenti di pubblicizzazione dell’attività svolta dal sig. Schrems nel settore della tutela dei dati personali come la partecipazione (in alcuni casi retribuita) a convegni e seminari e la pubblicazione di libri e volumi.

Proprio in considerazione di quest’uso “promiscuo” del proprio profilo Facebook aveva fatto dubitare che il ricorrente potesse essere considerato come un “consumatore” e che non dovesse essere piuttosto considerato come un professionista.

Come è noto, infatti, nell’ambito del diritto dell’Unione europea e della legislazione derivata, la nozione di “consumatore” è attribuibile soltanto a quella parte di un contratto che, anche in relazione alla natura ed alla finalità di quest’ultimo, rivesta una posizione estranea rispetto ad un’attività economica strutturata esistente.

La giurisprudenza della Corte di giustizia ha già affrontato il tema della perdita della qualità di “consumatore” per fatti sopravvenuti: nella sentenza Gruber i giudici di Lussemburgo avevano affermato che, nel caso di contratti stipulati o sottoscritti con una duplice finalità (privata e professionale) la qualità di consumatore è mantenuta soltanto se il contratto di cui trattasi e l’attività professionale dell’interessato è talmente modesto da diventare marginale (cfr. sentenza 20 gennaio 2005, causa C-464/01, Gruber, punto 39).

L’avvocato generale Bobek ha dunque sviluppato il principio di diritto desumibile dalla giurisprudenza della Corte con espresso riferimento all’uso promiscuo di account e pagine Facebook, e, più in generale, dei social media.

Ha così osservato che, specialmente in relazione ad alcune categorie di soggetti (professionisti, ricercatori, artisti, sportivi e simili) non sempre è possibile tracciare una netta separazione tra l’attività privata e l’attività professionale: “esistono cinquanta sfumature di blu (Facebook)”. È infatti frequente che tramite gli account personali dei social media siano pubblicate informazioni relative ai successi professionali ed alle attività di natura (quasi) professionale, condividendole con i propri contatti. “Un contenuto professionale, sotto forma di diffusione di interventi pubblici o pubblicazioni, può diventare persino prevalente ed essere condiviso con una vasta comunità di «amici» o di «amici degli amici» o diventare interamente «pubblico».

Si tratta di attività che – pur connesse con la dimensione professionale dell’utente – non generano un ritorno economico immediato né costruiscono esse stesse attività commerciali autonomamente rilevanti.

La mera promozione della propria attività non è dunque qualificabile, ad avviso dell’avvocato generale, come una attività economica tale da incidere sulla qualificazione della parte del contratto di servizio stipulato con il social media.

Si tratta dunque di un’ipotesi che deve essere tenuta distinta da quella dell’apertura di un account professionale e/o dall’utilizzo di una pagina Facebook appositamente progettata per l’esercizio di un’attività economica (come le pagine che oggi consentono la pubblicazione di annunci e/o la vendita di beni direttamente dal social network): in quei casi, infatti, la posizione dell’utente nell’economia complessiva del contratto vale a qualificarlo come un professionista.

L’Avvocato generale ha così concluso che “L’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 44/2001, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, deve essere interpretato nel senso che lo svolgimento di attività quali la pubblicazione di libri, la tenuta di conferenze, la gestione di siti web o la raccolta di fondi per l’esercizio di diritti non comporta la perdita dello status di consumatore con riferimento alle domande concernenti il proprio account Facebook utilizzato per finalità private.”

Trattandosi di una questione nuova, occorrerà vedere se la Corte di Giustizia accoglierà le conclusioni dell’Avvocato generale o deciderà di discostarsene.

La questione presenta tuttavia un certo interesse, in quanto la qualificazione di un soggetto come “professionista” o “consumatore” è idonea ad incidere in misura rilevante sulle norme applicabili al contratto di servizio, con pesanti ripercussioni non soltanto in relazione alla competenza giurisdizionale, ma anche in punto di validità delle clausole contrattuali qualificabili come “vessatorie”.

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