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Giovedì, 28 Marzo 2019 08:37

E-commerce e casi di esclusione del diritto di recesso. La Corte di giustizia si pronuncia sulla nozione di beni sigillati. Le conseguenze di una errata qualificazione.

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Con la decisione nel caso Slewo (sentenza 27 marzo 2019, causa C-681/17, ECLI:EU:C:2019:255) la Corte di giustizia ha fornito alcuni chiarimenti in ordine all’interpretazione delle disposizioni della direttiva 2011/81/UE che nei contratti di consumo conclusi a distanza (come nell’e-commerce) disciplinano l’esercizio del diritto di recesso ed i casi di esclusione. Più precisamente, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla nozione di beni sigillati che non si prestano ad essere restituiti per motivi igienici o connessi alla protezione della salute e sono stati aperti dopo la consegna.

Come è noto, nei contratti di consumo a distanza gli articoli 9 e seguenti della direttiva 2011/83/UE (recepiti in Italia dagli articoli 52 e seguenti del d.lgs. n. 206/2005, codice del consumo) consentono al consumatore di recedere dal contratto senza dover fornire alcuna motivazione entro quattordici giorni, decorrenti, nel caso di contratti di vendita, dal giorno in cui il consumatore acquisisce il possesso fisico dei beni acquistati.

In tali ipotesi, il consumatore è tenuto ai sensi dell’art. 14 a sostenere il costo diretto per la restituzione dei beni e risponde della diminuzione del valore dei beni risultante da una manipolazione dei beni diversa da quella necessaria per stabilire la natura, le caratteristiche e il funzionamento dei beni.

Tuttavia, il consumatore non è responsabile per la diminuzione del valore dei beni se il professionista ha omesso di informare il consumatore del suo diritto di recesso (art. 14, par. 2 dir. e 57, co. 2 codice del consumo).

L’art. 16 della direttiva (art. 59 del codice del consumo) stabiliscono alcune eccezioni al diritto di recesso dovute alla particolare natura dei beni o dei servizi forniti al consumatore, tra le quali rientrano, ad esempio, la fornitura di beni confezionati su misura o chiaramente personalizzati (art. 16, lett. c), la fornitura di beni che rischiano di deteriorarsi o scadere rapidamente (art. 16, lett. d), la fornitura di beni sigillati che non si prestano ad essere restituiti per motivi igienici o connessi alla protezione della salute e sono stati aperti dopo la consegna (art. 16, lett. e).

Nel caso sottoposto alla Corte di giustizia, un consumatore tedesco aveva acquistato un materasso dal sito internet del produttore.

Le condizioni generali indicate sul sito del venditore escludevano la possibilità per il consumatore di esercitare il diritto di recesso, invocando l’eccezione prevista dall’art. 16, lett. e) della direttiva, nel caso in cui il consumatore avesse rimosso la pellicola protettiva con la quale il materasso era stato rivestito.

Il consumatore, dopo la consegna del bene, rimuoveva la pellicola di protezione nella quale il materasso era avvolto. Entro il quattordicesimo giorno, esercitava il diritto di recesso, facendosi carico dei costi di spedizione per la restituzione del bene e chiedendo al professionista la restituzione del prezzo versato.

Atteso il rifiuto del professionista, sorgeva controversia in ordine alla validità della clausola inserita nelle condizioni generali di vendita e, più precisamente, sulla possibilità di qualificare il materasso avvolto dalla pellicola di protezione come “bene sigillato” insuscettibile di essere restituito per motivi igienici successivamente alla consegna.

La questione formava l’oggetto di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia da parte delle autorità giudiziarie tedesche.

La Corte di giustizia ha sul punto ritenuto che un bene come un materasso, anche qualora sia venduto dal produttore avvolto in una pellicola di protezione, non può rientrare nella nozione di “bene sigillato” che non può essere restituito per motivi igienici dopo l’apertura.

A questo proposito, ha rilevato come il considerando (47) della direttiva abbia previsto il riconoscimento del diritto di recesso per permettere al consumatore di stabilire la natura, le caratteristiche e il funzionamento dei beni il consumatore dovrebbe solo manipolarli e ispezionarli nello stesso modo in cui gli sarebbe consentito farlo in un negozio. Il diritto dell’Unione accorda perciò al consumatore un termine di riflessione appropriato durante il quale egli ha la possibilità di esaminare e testare il bene acquistato, facendone un uso limitato e tale da non diminuire il valore del bene o impedirne la ricommercializzazione in caso di restituzione.

Entro tale contesto deve essere collocata l’eccezione prevista dall’art. 16, lett. e) della direttiva, da interpretarsi in senso restrittivo.

A giudizio della Corte, essa trova applicazione soltanto se, una volta aperto il suo imballaggio, il bene da esso contenuto non sia definitivamente più in condizione di essere commercializzato, per motivi igienici o connessi alla protezione della salute, poiché è impossibile o eccessivamente difficile, a causa della natura stessa di tale bene, che il professionista adotti misure che consentano di rimetterlo in vendita senza per questo nuocere all’una o all’altra di tali esigenze.

In altre parole, tale eccezione trova applicazione per quei beni che, una volta aperti, non potrebbero essere rimessi in commercio senza essere sottoposti ad operazioni di disinfezione o sanificazione eccessivamente onerose in relazione alle caratteristiche ed al valore del bene.

Sulla base di tali considerazioni ha ritenuto che un bene come un capo di abbigliamento o un materasso, sebbene potenzialmente sia stato utilizzato, non appare, per ciò solo, definitivamente inidoneo a essere oggetto di un nuovo utilizzo da parte di un terzo o di una nuova commercializzazione. È sufficiente, a tale riguardo, ricordare, in particolare, che uno stesso e unico materasso è utilizzato dai clienti successivi di un albergo, che esiste un mercato dei materassi usati e che materassi che siano stati utilizzati possono essere oggetto di pulitura in profondità; sicché si può presumere che il professionista sia in grado, dopo la loro restituzione dal parte del consumatore, mediante un trattamento come pulitura o disinfezione, di rendere detti beni idonei a un nuovo utilizzo da parte di un terzo e, pertanto, a una nuova commercializzazione, senza compromettere le esigenze di protezione della salute o igieniche.

La decisione della Corte determina dunque la nullità della disposizione sul diritto di recesso, in quanto contraria alla legge.

Le conseguenze della nullità per il professionista non sono di poco conto. In Italia, ad esempio:

  1. a) la clausola delle condizioni di vendita potrebbe essere qualificata come pratica commerciale ingannevole ed esporlo alle sanzioni previste dalla legge (art. 20 ss. codice del consumo);
  2. b) il mancato adempimento dell’obbligo di fornire adeguate informazioni sul diritto di recesso determina il prolungamento di tale periodo fino a dodici mesi dopo la fine del periodo di recesso iniziale (art. 53 codice del consumo);
  3. c) la non corretta informazione sul diritto di recesso impedisce al professionista di chiedere al consumatore di farsi carico della diminuzione del valore o dei costi necessari a reimmettere in commercio il bene (art. 57, co. 2 codice del consumo).

Una corretta applicazione delle norme avrebbe permesso al professionista di avvalersi delle clausole volte a compensare gli effetti negativi del diritto di recesso, che è invece tenuto a sopportare integralmente per effetto dell’esclusione abusiva di tale diritto.

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